mercoledì 5 marzo 2014

L’Oscar ai tempi di feisbùk



Davvero incredibile cosa ha scatenato sui social media l’Oscar come miglior film straniero a La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Tre giorni di delirio social. Si è detto tutto e il contrario di tutto. Tre giorni in cui gli italiani sono diventati un popolo di cineasti e critici cinematografici.
Ripercorriamo le tappe salienti di questa follia collettiva.

L’ATTESA. Domenica sera è già partito il countdown. A botta di “dai che ce la fa” e “forza Paolo Sorrentino”. Con gente che ha fatto la nottata in attesa di veder premiato con la statuetta dorata il film italiano. La “grande bellezza” è stata che molti di coloro i quali seguivano in trepidante attesa manco lo avevano visto il film e, peggio ancora, ne conoscevano l’esistenza fino a pochi mesi prima.

ARRIVA L’OSCAR 1 (VIVA L’ITALIA). Lunedì mattina è stato un continuo scoppiettare di post entusiasti. In tanti si sono sentiti fieri di essere italiani. Come quando si vincono i mondiali. Tutti a gridare (virtualmente) viva l’Italia. Per una mattina paese di santi,poeti, navigatori e… registi.

ARRIVA L’OSCAR 2 (VIVA NAPOLI E MARADONA). Se tutti ci siamo sentiti fieri di essere italiani, i meridionali hanno ancora una volta tirato fuori l’orgoglio terronista. Sorrentino e Servillo, figli veraci di Napoli e del Sud, tengono alto il nome del meridione d’Italia. Il post più gettonato: “Non siamo solo terra dei fuochi”. Ma anche “Non siamo solo camorra e criminalità” ha ottenuto un buon successo. Strappapost anche la dedica a Maradona, che ha fatto scatenare i non pochi tifosi partenopei. Su tutti Aurelio De Laurentiis (lui romano dè roma e napoletano di adozione presidenziale nonché produttore cinematografico) che ha colto l’occasione per l’ennesimo cinguettio e salire anche lui sul carro del vincitore.

ARRIVA L’OSCAR 3 (SORRENTINO VERGOGNA!). Se in tanti hanno esultato per l’Oscar, altrettanti hanno subito storto il naso. A cominciare dalle dediche. Nel mirino dei “criticisti” è finito Diego Armando Maradona. Vergogna!!! - ha gridato parte del popolo faisbucchiano – Dedicare un premio così importante a un ex cocainomane ma soprattutto evasore fiscale.  Ho anche trovato questo commento: “Che schifo, dedicare l’Oscar a un evasore multimilionario… E noi italiani che ci facciamo un culo così paghiamo le tasse?” (Vabbè…). E non poteva mancare il testadimichia Salvini a salire sul carro dei “dagli all’evasore”.

ARRIVA L’OSCAR 4 (BERLUSCONI VERGOGNA!). Una minoranza (di sicuro comunista) ha anche indicato in Berlusconi il principale artefice di questa vittoria (e che, proprio per questo, da considerarsi fasulla). Sembra incredibile, ma il fatto che il film fosse distribuito dalla Medusa, è stato visto come una manovra per riportare in auge il cavaliere (sì sì, avete capito bene, qualcuno ha realmente postato ciò) in un periodo in cui gli gira male… e con le europee alle porte. Ovviamente sul sito de Il Giornale è subito spuntato un articolo che esaltava la lungimiranza del Berlusca, domandandosi perché gli altri non parlassero dell’ennesimo successo del Cav.

ARRIVA L’OSCAR 5 (GIORNALI E MEDIA VERGOGNA!). Ho anche beccato qualche tizio (in realtà abbastanza) che criticavano media e giornali per aver aperto con la notizia dell’Oscar a La Grande Bellezza e avergli dato troppo spazio. Ma come – si è domandato qualcuno – Pompei cade a pezzi, Putin è pronto a scatenare la terza guerra mondiale e voi parlate degli Oscar. Per la serie. Non va mai bene nulla. Ma proprio nulla.

THE DAY AFTER (IL FILM VA SU CANALE 5). Martedì mattina è cominciato il countdown per la trasmissione del film su canale5 (rete del Berlusca). Vari i commenti. Di attesa (non vedo l’ora di vederlo) e di critica (Cav schifoso approfitta dell’Oscar per fare ancora più soldi).

THE FINAL BATTLE (L’EPICO SCONTRO TRA I CAPOLAVORISTI E GLI SCHIFATISTI). Questa è stata la parte più entusiasmante (almeno a parere mio). Sono bastati pochi minuti di film per scatenare l’inferno. Tantissimi hanno cominciato a criticare. Si andava da “che schifo di film” a “ma come ha fatto a vincere l’Oscar?”. La Grande Bellezza è stata il fatto che molti che il giorno prima avevano esultato (a suon di complimenti ed entusiastici giudizi) ora criticavano a suon di “ma che brutto” il film di Sorrentino. Robe del genere succedono solo in Italia. Prontamente è partita la difesa dei capolavoristi che accusavano: “Potete vedervi solo Il Grande Fratello e la De Filippi”, “Non capite un cazzo, questo è un grande film” etc. etc (anche se quello che mi è piaciuto di più è stato: “Il film fa schifo. E’ malinconico e noiosissimo. Mi è bastato vederne poche battute… io la trama l'ho colta subito e sinceramente nn mi interessa la realtà felliniana ma la realtà "vera" – what?- cito testualmente). In molti casi si è arrivati all’insulto. Tra i capolavoristi  merita un approfondimento la figura del “bastian contrario”, quello che il film non l’ha capito (e a cui forse il film non è neppure piaciuto) ma che per spirito di contraddizione (la massa su feisbùk ha fortemente criticato La Grande Bellezza) ha difeso a spada tratta il film di Sorrentino, cogliendone significati reconditi e nascosti (robe del tipo “ti fa capire che chi muore resta sempre vivo in qualcuno”) pur di cavalcare l’onda del contrapposizionismo estremo . Chiudo con una citazione in merito all’argomento (rubata per gentile concessione al turco napoletano Antonio Piccolo che a sua volta l’ha presa a Gianfranco Manfredi): “Gli Oscar si danno ai film e non al nostro personale giudizio sui film. Se danno l'Oscar a un film che ti è piaciuto, non l'hanno dato a te. E se viceversa danno l'Oscar a un film che non ti è piaciuto non ti hanno necessariamente dato del cretino. Tu non sei preso in considerazione dalla giuria, FATTENE UNA RAGIONE”(Gianfranco Manfredi)

Cosa penso io del film? In tutta onestà… I would keyyourass (Te chiavass)


sabato 22 febbraio 2014

La nostra è una Repubblica Parlamentare (ovvero, lo Stato siamo noi)



Quella italiana è una Repubblica Parlamentare. Sovrano è il popolo che elegge i suoi rappresentanti in Parlamento. Fino alla prima metà degli anni ‘90 le varie maggioranze che sostenevano il governo erano SEMPRE frutto di accordi politici (qualcuno per caso ricorda il "pentapartito" o più indietro il "compromesso storico") successivi alle elezioni. Si votava il partito e in base ai numeri, chi vinceva le elezioni aveva il compito di formare il governo accordandosi con gli altri partiti (ovviamente se hai il 50%+1 puoi anche governare da solo). Una legislatura durava spesso un quinquennio,  assai di frequente si alternavano governi e presidenti del consiglio (ricordate gli andreotti bis, tris etc etc). Le cose, nel bene o nel male, andavano così... Il problema nasce quando si è voluto dare ad una repubblica parlamentare una parvenza esteriore da repubblica "presidenziale" (con l'indicazione prima delle elezioni del nome del presidente del consiglio che però non ha pieni poteri perché l'ultima parola spetta sempre e solo al parlamento) divenendo (attenzione però, sempre e solo a parole) uno strano e particolare ibrido (non siamo per intenderci ne carne ne pesce). Molti ragionando di pancia più che di testa, spesso dimenticano che l'Italia resta una REPUBBLICA PARLAMENTARE... e in una repubblica parlamentare è normale che se ci sono i numeri per dare vita a un governo lo si fa (cit.)...
Il problema è un altro secondo me. Il parlamento rispecchia, per linee generali, la volontà popolare. Il popolo si identifica con personaggi senza etica e morale, che pensano quasi esclusivamente al proprio personale tornaconto e che spesso non hanno capacità e competenze necessarie per amministrare la res pubblica e SCEGLIE (votando, vedi il video... io quello lo voto ché è un paraculo) di farsi rappresentare da suddetti personaggi in parlamento. La colpa di tutto questo è solo nostra, di noi cittadini italiani... perché la bellezza della democrazia è che lo STATO SIAMO NOI…


mercoledì 19 febbraio 2014

Se il Brasile incontra il Giappone... ecco a voi la Temakeria

Se metti insieme la cucina giapponese e quella brasiliana cosa ne vien fuori? Semplice... il Temaki. L’ultima tendenza vuole infatti che il “classico” cono d’alga ripieno di riso e pesce venga gustato con tutta una serie di varianti, il più esotico possibile, purché originarie del brasile. Dove trovare questa prelibatezza? Anche qui la domanda è superflua: nelle Temakerie. Come sempre il tutto ha avuto inizio negli Stati Uniti con la catena di locali cool Sushi Samba che, prima, è sbarcata nel vecchio continente (ha aperto un locale anche a Londra, e pare sia quasi impossibile trovare posto). La diffusione in Europa sta avvenendo a macchia d’olio, e le Temakerie sono sbarcate anche in Italia. Dove? Ma che domande... A Milano, ovvio. Per ora sono soltanto due i locali di cucina nippo-brasiliana, ma almeno un altro paio stanno per aprire i battenti. Finger’s è stato il primo ad apparire nel capoluogo milanese e il successo è stato immediato, diventando in pochissimo tempo uno dei locali più gettonati. Visto il successo immediato è stato subito seguito da Temakinho. Ma, di preciso, cos’è una “temakeria”? Si tratta di un ristorante che unisce la tradizione culinaria giapponese e quella brasiliana (non ci credereste mai, ma in Brasile c’è il nucleo piú importante di giapponesi naturalizzati all’estero, oltre un milione e mezzo). Nel paese sudamericano infatti il sushi e la cucina giapponese hanno avuto negli ultimi anni un impatto “devastante”, conquistando il gusto dei brasiliani. Il temaki è diventato uno dei cibi più richiesti e diffusi, e ovviamente ha subito delle contaminazione con la cucina locale (infinite le varianti con ingredienti tipici del Brasile). L’alga nori, al riso e al pesce fresco si sono fusi con frutta, verdura, salse (piccanti e non) e tanti ingredienti tipici del paese verdeoro. Visto l’incredibile successo, in poco tempo sono nate migliaia di temakerie. Da lì agli Stati Uniti e poi all’Europa il passo è stato breve. E adesso tocca anche all’Italia.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)

Impazzano gli all you can eat: come abbuffarsi in tempi di crisi

Pancia piena, cuore felice e tasche... un po’ meno vacanti. Spopolano i menù all you can eat (tradotto letteralmente in tutto ciò che riesci a mangiare), ovvero la possibilità di mangiare, a un menù fisso (il prezzo di solito non va oltre i 20 euro), tutto quello che si riesce. La “moda” è partita dal Giappone dove i sushi restaurant qualche tempo fa hanno lanciato l’idea, seguita da Usa ed Europa, tanto che oggi in ogni città italiana è quasi impossibile non trovare un locale sushi che non comprenda questo particolare tipo di proposta. Anche se è negli Stati Uniti che l’all you can eat è diventato parte delle abitudini alimentari di tantissimi americani. Per fare un esempio, al Dodger Stadium, stadio di baseball di Los Angeles, esiste uno specifico settore per gli appassionati del genere: l’All you can eat pavillion. Con il biglietto per questo settore sono compresi hot dog, bevande, panini e patatine fritte. Tutto no limits.
Anche in Italia la formula all you can eat è arrivata con il dilagare di sushi bar e ristoranti giapponesi, ma è bastato poco che anche altri tipi di locali si “adattassero” alla tendenza. E anche a Napoli sono davvero tante le proposte “no limits”. Tante le pizzerie che a cifre contenute offrono la formula “pizza non stop”, mentre più di un pub si cimenta con gli all you can eat menù di panini. Ultimamente non è raro trovare steak house che propongono grigliate senza fine, e qualche ristorante ha provato con la pasta. E, sempre sulla scia degli Stati Uniti, molti pongono come unica condizione dell’all you can eat (a parte il costo) l’obbligo di non lasciare nulla nel piatto, lanciando così una sorta di sfida al cliente. A prescindere dal cibo e da come questo tipo di menù viene proposto, si tratta senza dubbio un nuovo modo di proporre cibo ai tempi della crisi: costi abbastanza contenuti per il cliente (che alla fine è pure soddisfatto), locale quasi sempre pieno per il ristoratore.

(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)

lunedì 20 gennaio 2014

Birrificio Sorrento e Bir Sciò in corsa per gli “Oscar della Birra”

Gli italiani non sono ancora diventati un popolo di “birrai”, ma la strada intrapresa negli ultimi anni ha fatto salire in maniera vertiginosa le birre made in Italy, tanto che stanno cominciando ad apprezzarci anche fuori dai confini nazionali. Certo, il vino resta ancora inarrivabile, ma la birra (di qualità) sta conquistando sempre più numerosi appassionati nel nostro paese. Un settore in netta crescita, con tanto di certificazioni e premi tra cui spiccano gli Italian Beer Awards (in pratica gli oscar per il mondo della birra made in Italy), che proprio in questi giorni hanno visto rendere note le nomination per l’edizione 2013. Un gruppo di esperti ha infatti selezionato i protagonisti della birra italiana che si sono meglio distinti nell’anno solare 2013. Le preferenze di questi esperti del settore sono state raccolte, conteggiate e utilizzate per delineare una lista di nomination per ognuna delle cinque categorie previste: miglior birrificio, miglior brewpub, migliore beer firm, miglior pub/birreria e miglior beershop. Nelle cinque categorie sono soltanto due le “napoletane” che concorreranno per la palma degli Italian Beer Awards. Nella categoria beer firm (termine impiegato per indicare una sorta di “birrificio itinerante“, che include tutti i produttori di birra senza  un proprio impianto) è stato indicato tra i primi cinque il birrificio Sorrento di Sant’Agnello. La sorpresa arriva però nella categoria beer shop dove tra le prime sei (c’è un parimerito) c’è anche il Bir Sciò, giovane locale di Quarto. Una bella soddisfazione per i “colori” partenopei già arrivare a contendersi il premio in queste categorie. Da segnalare infine, nella categoria miglior pub/birreria l’Ottavo Nano di Atripalda, in provincia di Avellino. Ora bisognerà attendere qualche settimana per conoscere i nomi dei premiati nelle varie categorie.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)

mercoledì 15 gennaio 2014

Tè, caffè, cappuccino e… tante coccole: dal Giappone arrivano i CAT CAFE’



Bere un tè con dei pasticcini, o un caffè oppure un cappuccino con cornetto, seduto comodamente a un tavolino… accarezzando e coccolando un gatto. E’ questa una delle ultime (e senza dubbio più curiose tendenze in fatto di bar: il Cat Cafè. Si tratta in parole povere di un locale rilassante, con tavolini e magari anche qualche poltrona, abitato da una ventina (di meno o di più, dipende solitamente dallo spazio a disposizione) di gatti, che non fanno altro che offrire la propria compagnia. I gatti vivono in questi locali e sono a disposizioni dei clienti e degli avventori di turno che possono tranquillamente gustare le proprie bevande (ma anche mangiare pasticcini, torte e tanto altro), rilassandosi accarezzando dei coccolosi felini. I Cat Cafè  sono dunque ambienti rilassanti, caldi e accoglienti dove coccolare per un’ora o più simpaticissimi micini. La moda (ancora una volta) è da Taiwan con il primo di questi Cat Cafè si è aperto a Taipei nel 1998. Da lì questa “strana” tendenza è approdata in Giappone (paese che va pazzo per i gatti) dove esistono ben oltre cento di questi particolari locali, di cui 40 soltanto nella città di Tokyo (tra i più famosi annoveriamo il Calico Cat Cafè e il Nekorobi). Dall’oriente i Cat Cafè sono “sbarcati” anche in Europa: a Vienna, Budapest, Berlino, Monaco, Parigi e Madrid. E in Italia? Per ora ancora nessun Cat Bar, anche se entro febbraio pare che ne aprirà uno (il primo nel nostro paese) a Torino. Nessuna polemica da parte di animalisti e amanti dei felini. I gatti presenti in questi locali sono sterilizzati e sempre seguiti da veterinari e sono lasciati liberi all’interno di questi bar. Nessun problema anche per quanto riguarda l’igiene: i vari gattini hanno infatti sempre a disposizione un’area toilette igienizzata a parte.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)

 

lunedì 13 gennaio 2014

Street Food, più che una moda… una filosofia di cibo



Letteralmente vuol dire cibo da strada ed è salito agli onori delle cronache grazie ad una trasmissione televisiva su sky. Si sta parlando dello street food che, soprattutto a Napoli è più che una moda , ma una vera e propria filosofia di cibo. Tre gli elementi che caratterizzano lo street food: economico, comodo e reperibile praticamente ovunque in città, con chiosi o furgoni che spesso stazionano nei luoghi di maggiore movida o di maggior passaggio turistico. Ma non solo, street food è anche quel locale che, senza posti a sedere, offre cibo tipico che, in piena “filosofia street food” viene poi mangiato camminando. Perché, altra caratteristica del cibo di strada, è che deve essere rigorosamente mangiato senza posate o piatti. In una città come Napoli, dove la pizza è regina incontrastata, sono davvero numerose le pizzerie presso le quali è ancora possibile mangiare la margherita “a portafoglio” (piegata in 4 parti), ma anche numerose friggitorie (abbondano dal Vomero al Centro Storico, passando per Chiaia e i Quartieri spagnoli: zeppole, crocchè e soprattutto la “mitica” frittatina si sono ritagliate spazi davvero importanti, anche grazie alla sopracitata trasmissione televisiva che ha dedicato una puntata proprio al cibo di strada partenopeo. Un modo di fare (e intendere) il cibo che a Napoli affonda le sue radici nel tempo, immortalato dalla cinepresa di Vittoria De Sica nel capolavoro “L’oro di Napoli” con una splendida Loren “pizzaiola”. Oggi molte di quelle antiche pizzerie “mordi e fuggi” esistono ancora, si sono ingrandite con sale e tavoli, ma coltivano ancora la cultura di quello che oggi definiamo street food. Pellone, Di Matteo e Sorbillo solo per fare dei noi continuano a vendere ogni giorni migliaia di pizze (ma anche frittatine e fritti vari) da consumare rigorosamente per strada. Perché a Napoli street food non è solo una moda, ma uno stile di fare il cibo.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)


 

Nuove tendenze: arrivano i CHEESE BAR



In principio era il Wine bar. Arrivati (guarda caso) dall’estero i “bar del vino” (questa la traduzione letterale di wine bar) cominciare a prendere piede anche in  Italia, diffondendosi poi a macchia d’olio, fino a diventare locali di tendenza.
Ma dagli Stati Uniti, passando per la Francia e poi in tutta Europa, sta arrivando anche da noi una nuova moda in fatto di  locali drink&food: si tratta dei cheese bar. Concettualmente sono una sorta di evoluzione del wine bar, dove a farla da padrone è (lo dice la parola stessa) il formaggio, proposto (e assaggiato) in tutte le sue varietà. Ovviamente se è il formaggio a farla da padrone, anche il vino recita un importantissimo ruolo da comprimario. Degustazioni di numerose varietà di formaggi accoppiate con i migliori e più indicati vini conquistano anche i palati più esigenti.
La storia dei cheese bar parte da oltre oceano, esattamente dagli Stati Uniti. Da lì poi questa tendenza è sbarcata in Francia con i bar à fromage e a piccoli passi sta cominciando a prendere piede anche da noi.
Come già accennato nei cheese bar sono i formaggi a farla da padrone. Con latte di capra, di pecora o di vaccino, local o di esportazione, vengono serviti su appositi taglieri di legno spesso accompagnati da miele o salse varie che ne esaltano il gusto e il sapore. Formaggi che, in base al gusto, vengono sempre accoppiati a un calice di vino o anche a un buon boccale di birra, appositamente scelto per un bailamme di sapori che conquistano i gourmet più esigenti.
Attualmente in Italia non sono ancora tantissimi,almeno nelle regioni del Sud, dove a farla da padrone è ancora il fratello maggiore wine bar. Anche se in Toscana ed Emilia Romagna (ma anche nel Lazio) se ne trovano sempre più di frequente.
Per ora a Napoli e in provincia non ce ne sono ancora, ma siamo sicuri, è solo una questione di tempo… 
 (un mio articolo uscito sul Primo numero del settimanale MyNapoliWeek)