lunedì 20 gennaio 2014

Birrificio Sorrento e Bir Sciò in corsa per gli “Oscar della Birra”

Gli italiani non sono ancora diventati un popolo di “birrai”, ma la strada intrapresa negli ultimi anni ha fatto salire in maniera vertiginosa le birre made in Italy, tanto che stanno cominciando ad apprezzarci anche fuori dai confini nazionali. Certo, il vino resta ancora inarrivabile, ma la birra (di qualità) sta conquistando sempre più numerosi appassionati nel nostro paese. Un settore in netta crescita, con tanto di certificazioni e premi tra cui spiccano gli Italian Beer Awards (in pratica gli oscar per il mondo della birra made in Italy), che proprio in questi giorni hanno visto rendere note le nomination per l’edizione 2013. Un gruppo di esperti ha infatti selezionato i protagonisti della birra italiana che si sono meglio distinti nell’anno solare 2013. Le preferenze di questi esperti del settore sono state raccolte, conteggiate e utilizzate per delineare una lista di nomination per ognuna delle cinque categorie previste: miglior birrificio, miglior brewpub, migliore beer firm, miglior pub/birreria e miglior beershop. Nelle cinque categorie sono soltanto due le “napoletane” che concorreranno per la palma degli Italian Beer Awards. Nella categoria beer firm (termine impiegato per indicare una sorta di “birrificio itinerante“, che include tutti i produttori di birra senza  un proprio impianto) è stato indicato tra i primi cinque il birrificio Sorrento di Sant’Agnello. La sorpresa arriva però nella categoria beer shop dove tra le prime sei (c’è un parimerito) c’è anche il Bir Sciò, giovane locale di Quarto. Una bella soddisfazione per i “colori” partenopei già arrivare a contendersi il premio in queste categorie. Da segnalare infine, nella categoria miglior pub/birreria l’Ottavo Nano di Atripalda, in provincia di Avellino. Ora bisognerà attendere qualche settimana per conoscere i nomi dei premiati nelle varie categorie.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)

mercoledì 15 gennaio 2014

Tè, caffè, cappuccino e… tante coccole: dal Giappone arrivano i CAT CAFE’



Bere un tè con dei pasticcini, o un caffè oppure un cappuccino con cornetto, seduto comodamente a un tavolino… accarezzando e coccolando un gatto. E’ questa una delle ultime (e senza dubbio più curiose tendenze in fatto di bar: il Cat Cafè. Si tratta in parole povere di un locale rilassante, con tavolini e magari anche qualche poltrona, abitato da una ventina (di meno o di più, dipende solitamente dallo spazio a disposizione) di gatti, che non fanno altro che offrire la propria compagnia. I gatti vivono in questi locali e sono a disposizioni dei clienti e degli avventori di turno che possono tranquillamente gustare le proprie bevande (ma anche mangiare pasticcini, torte e tanto altro), rilassandosi accarezzando dei coccolosi felini. I Cat Cafè  sono dunque ambienti rilassanti, caldi e accoglienti dove coccolare per un’ora o più simpaticissimi micini. La moda (ancora una volta) è da Taiwan con il primo di questi Cat Cafè si è aperto a Taipei nel 1998. Da lì questa “strana” tendenza è approdata in Giappone (paese che va pazzo per i gatti) dove esistono ben oltre cento di questi particolari locali, di cui 40 soltanto nella città di Tokyo (tra i più famosi annoveriamo il Calico Cat Cafè e il Nekorobi). Dall’oriente i Cat Cafè sono “sbarcati” anche in Europa: a Vienna, Budapest, Berlino, Monaco, Parigi e Madrid. E in Italia? Per ora ancora nessun Cat Bar, anche se entro febbraio pare che ne aprirà uno (il primo nel nostro paese) a Torino. Nessuna polemica da parte di animalisti e amanti dei felini. I gatti presenti in questi locali sono sterilizzati e sempre seguiti da veterinari e sono lasciati liberi all’interno di questi bar. Nessun problema anche per quanto riguarda l’igiene: i vari gattini hanno infatti sempre a disposizione un’area toilette igienizzata a parte.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)

 

lunedì 13 gennaio 2014

Street Food, più che una moda… una filosofia di cibo



Letteralmente vuol dire cibo da strada ed è salito agli onori delle cronache grazie ad una trasmissione televisiva su sky. Si sta parlando dello street food che, soprattutto a Napoli è più che una moda , ma una vera e propria filosofia di cibo. Tre gli elementi che caratterizzano lo street food: economico, comodo e reperibile praticamente ovunque in città, con chiosi o furgoni che spesso stazionano nei luoghi di maggiore movida o di maggior passaggio turistico. Ma non solo, street food è anche quel locale che, senza posti a sedere, offre cibo tipico che, in piena “filosofia street food” viene poi mangiato camminando. Perché, altra caratteristica del cibo di strada, è che deve essere rigorosamente mangiato senza posate o piatti. In una città come Napoli, dove la pizza è regina incontrastata, sono davvero numerose le pizzerie presso le quali è ancora possibile mangiare la margherita “a portafoglio” (piegata in 4 parti), ma anche numerose friggitorie (abbondano dal Vomero al Centro Storico, passando per Chiaia e i Quartieri spagnoli: zeppole, crocchè e soprattutto la “mitica” frittatina si sono ritagliate spazi davvero importanti, anche grazie alla sopracitata trasmissione televisiva che ha dedicato una puntata proprio al cibo di strada partenopeo. Un modo di fare (e intendere) il cibo che a Napoli affonda le sue radici nel tempo, immortalato dalla cinepresa di Vittoria De Sica nel capolavoro “L’oro di Napoli” con una splendida Loren “pizzaiola”. Oggi molte di quelle antiche pizzerie “mordi e fuggi” esistono ancora, si sono ingrandite con sale e tavoli, ma coltivano ancora la cultura di quello che oggi definiamo street food. Pellone, Di Matteo e Sorbillo solo per fare dei noi continuano a vendere ogni giorni migliaia di pizze (ma anche frittatine e fritti vari) da consumare rigorosamente per strada. Perché a Napoli street food non è solo una moda, ma uno stile di fare il cibo.
(un mio articolo uscito sul settimanale on line MynapoliWeek)


 

Nuove tendenze: arrivano i CHEESE BAR



In principio era il Wine bar. Arrivati (guarda caso) dall’estero i “bar del vino” (questa la traduzione letterale di wine bar) cominciare a prendere piede anche in  Italia, diffondendosi poi a macchia d’olio, fino a diventare locali di tendenza.
Ma dagli Stati Uniti, passando per la Francia e poi in tutta Europa, sta arrivando anche da noi una nuova moda in fatto di  locali drink&food: si tratta dei cheese bar. Concettualmente sono una sorta di evoluzione del wine bar, dove a farla da padrone è (lo dice la parola stessa) il formaggio, proposto (e assaggiato) in tutte le sue varietà. Ovviamente se è il formaggio a farla da padrone, anche il vino recita un importantissimo ruolo da comprimario. Degustazioni di numerose varietà di formaggi accoppiate con i migliori e più indicati vini conquistano anche i palati più esigenti.
La storia dei cheese bar parte da oltre oceano, esattamente dagli Stati Uniti. Da lì poi questa tendenza è sbarcata in Francia con i bar à fromage e a piccoli passi sta cominciando a prendere piede anche da noi.
Come già accennato nei cheese bar sono i formaggi a farla da padrone. Con latte di capra, di pecora o di vaccino, local o di esportazione, vengono serviti su appositi taglieri di legno spesso accompagnati da miele o salse varie che ne esaltano il gusto e il sapore. Formaggi che, in base al gusto, vengono sempre accoppiati a un calice di vino o anche a un buon boccale di birra, appositamente scelto per un bailamme di sapori che conquistano i gourmet più esigenti.
Attualmente in Italia non sono ancora tantissimi,almeno nelle regioni del Sud, dove a farla da padrone è ancora il fratello maggiore wine bar. Anche se in Toscana ed Emilia Romagna (ma anche nel Lazio) se ne trovano sempre più di frequente.
Per ora a Napoli e in provincia non ce ne sono ancora, ma siamo sicuri, è solo una questione di tempo… 
 (un mio articolo uscito sul Primo numero del settimanale MyNapoliWeek)


domenica 15 dicembre 2013

LA CULTURA E’ COOL
Ovvero: Il corno e la Reggia, il Villaggio Preistorico e il concertone e Pompei che cade a pezzi



Al giorno d'oggi la parola "bene culturale" va di moda. Fa trendy. E’ cool (direbbero gli americani).  Stato, Regione, Provincia e Comune fanno a gara a “comunicare” le loro iniziative. La cultura di qua, la cultura di là. Di cultura si può vivere, col turismo si può campare etc etc... Però i nostri politici (e i nostri amministratori) a tutti i livelli (ovviamente ci sono le dovute eccezioni) fanno investimenti, anche di un certo valore economico che non riesco a comprendere, nonostante ci metta tanta, ma tanta buona volontà.
 Esempi concreti
1) La Reggia di Caserta è la vergogna d'Italia. Opera d’arte riconosciuta a livello mondiale (sigilli Unesco) che versa in condizioni davvero pietose. E il sindaco di Casera cosa fa? Spende 75mila per un corno (opera d'arte posizionata davanti alla Reggia). Ma dico io, in un periodo di crisi delle casse pubbliche, abbiamo soldi da investire e che si fa? SI compra un corno…
2) A Nola il Villaggio Preistorico, tesoro unico e unica testimonianza dell’età del bronzo (da molti studiosi chiamata la “Pompei della preistoria”) affonda (o meglio è già affondato) nel fango e la Regione Campania finanzia un "concerto nella cattedrale" (con numerosi big, da Massimo Ranieri ad altri, con Giletti conduttore.. i nomi onestamente non li ricordo) dal costo di ben oltre 150mila euro. Nel mentre l'assessorato ai beni culturali della cittadina partenopea (che ad onor del vero sta lavorando molto bene) per fare qualcosa di concreto è costretto ad elemosinare pochi spiccioli ai privato. Anche in questo caso, pur sforzandomi e arroventandomi le cerevella, non trovo senso logico. Ma come, dico io, abbiamo (o meglio la Regione ha, ma a conti fatti è la stessa cosa perché lo Stato siamo noi) oltre 150mila euro da investire e cosa si fa, si sponsorizza (pagandolo fior di quattrini) il concertone… Che andrà pure in differita sulla Rai Tv e darà visibilità alla città di Nola in chiave turismo, ma se il più importante bene archeologico (ce lo invidia - o ce lo invidiava non so, il mondo intero, almeno quello archeologico) è letteralmente sepolto dal fango (VEDI FOTO) i turisti cosa vengono a vedere (nei mesi che non siano giugno)?
3) Pompei poi è una spada nel cuore. L'avessero avuto in Toscana (regione che davvero riesce a vivere di turismo, basta averla visitata una volta per rendersene conto) un patrimonio del genere, gli avrebbero fatto “cagare” milioni di euro (una cornucopia per intenderci). Noi invece la stiamo facendo cadere a pezzi (nel vero senso della parola). Dove non è riuscito il Vesuvio stiamo riuscendo noi. Eppure, la Regione Campania investe 150mila euro e passa in un concertone.
Ora, vi supplico ho bisogno di qualcuno che mi spieghi. Io proprio non riesco a capire, a comprendere. ma è tanto difficile usare le cerevella, o quanto meno un po' di senso logico... Essere in fondo normali... provare a fare 1+1...
E poi ci si domanda perché la gente non va a votare, perché cala il consenso ai partiti politici, perché la gente protesta sempre più violentemente, perché Grillo piglia tutti quei voti (e sono sicuro alle prossime politiche farà il botto)
Se non ci arrivate voi politici-amministratori-burocrati-tecnocrati, contattatemi che ve lo spiego io...


venerdì 6 dicembre 2013

Il Porcellum, Mandela e il sorteggio dei mondiali



Dall’incostituzionalità del Porcellum, passando per la morte di Nelson Mandela arrivando al sorteggio dei mondiali. Il tutto in due giorni (anzi di meno). Notizie che hanno vita assai breve, che passano veloci nei commenti di quella grande piazza dei social network. L’incostituzionalità del Porcellum smuove le coscienze e fa gridare (virtualmente su social) allo scandalo e alla rivoluzione. Tutti a invocare un cambiamento, una svolta. L’indignazione di un popolo pronto finalmente a cambiare le cose. Almeno fino alla notte inoltrata. Quando arriva la triste notizia della morte di Nelson Mandela. E allora tutti a ricordare, citare, onorare. Tanta, tanta gente che si piange la buonanima di Mandela. E che poi sono gli stessi  che al primo semaforo digrignano “Questo nero di merda”. La commemorazione virtuale (con annessi propositi di rispettare i diversi) svaniscono stavolta in meno di 24 ore. Il tempo che dall’urna (maledetta) venisse fuori il nome dell’Uruguay. Mandela è già bello e dimenticato. E in tutti i cuori comincia a pulsare l’orgoglio pallonaro. Almeno fino al prossimo avvenimento (che con molta probabilità sarà l’imminente giornata di campionato). E così via, all’infinito. In un bailamme che ha l’unico effetto di anestetizzare le coscienze. Una sorta di vaccino che ci rende immuni da qualsiasi voglia concreta di cambiamento. Che ci fa urlare e protestare, sfogare contro le immondizie (cose immonde, sudicie, sordide, sozze) di ogni sorta in tempi brevi  ma che alla lunga ci fa accettare tutto e il contrario di tutto. Che ci commuove nel ricordo di un buono che scompare, nell’ammirare un gesto giusto o caritatevole, giusto il tempo per  sopire i nostri sensi di colpa. Un anestetico catartico che ha un solo scopo. Renderci immuni a qualunque cosa possa indurci al cambiamento reale. Nei fatti e nelle azioni. O quanto meno a pensare (o quanto meno a provarci) in maniera critica e soprattutto con la nostra testa (anche se questo è un’altra storia). A meno che non sia voluto da chi detiene il potere o i poteri (quello istituzionale, economico, politico etc. etc.).
"Balliamo tutti un turbinoso walzer… balliamo, balliamo, ci vogliono contenti e sorridenti" (cit.)